Il
2014 sarà l'anno della rinascita economica europea...l'hanno detto,
promesso, giurato. Peccato lo facciano da almeno 4 anni. Poi la
situazione, inesorabilmente, peggiora e le stime di crescita vengono
posticipate all'anno successivo. Nel frattempo quest'anno vi saranno
le elezioni europee. Il dibattito impazza. Ben 200 intellettuali
facenti parte delle più disparate correnti della sinistra europea si
scatenano in tentativi di sostenere o demolire la candidatura
unitaria del leader greco Alexis Tsipras. La realtà è che nessuno,
a parte piccoli personalismi terlizzesi scarsamente degni di nota, ha
qualcosa da obiettare alla candidatura del maggior esponente di
Syriza. Che il segretario della maggiore coalizione della sinistra
greca, forte di circa un terzo dei voti, sia il candidato di un
raggruppamento anche vagamente anticapitalista è assodato. Il
problema sorge sulla definizione di anticapitalista. Questo, forse,
accade perché non siamo ancora riusciti a definire sinteticamente la
fase del capitalismo che stiamo attraversando e, di conseguenza, la
natura di questa specifica crisi ci sfugge. Molte sono le
caratteristiche nuove, o ammantate di nuovo, di questa fase dello
sviluppo capitalistico che tracciarne una sintesi è divenuto una
sfida nella quale la sinistra rischia di giocarsi non solo la propria
identità, come già ampiamente accaduto alla socialdemocrazia, ma
persino il proprio ruolo storico, come accaduto a quella
rivoluzionaria. Il problema è piuttosto cogente dato che le
descrizioni sintetiche sono necessarie alla politica per almeno due
ordini di motivi sia come strumento analitico sia per poter
trasformare quell'analisi in proposta quotidiana e di lungo respiro,
sia tattica che strategica.
Questa,
dunque, la fase da un punto di vista soggettivo; una sinistra
dispersa e priva di una strategia. Una sinistra che ha vissuto di
tattica per alcuni, pochi, anni successivi alla scomparsa del blocco
socialista ma che è poi sprofondata nella sconfitta. Una sconfitta
che è, come sempre, sia materiale che culturale. E non poteva essere
diversamente. Incapace di comprendere i mutamenti profondi delle
società ha smarrito la capacità anche solo di costruire cultura
alternative al pensiero neoliberista. Nel suo ultimo intervento Negri
ha sottolineato come questa tornata elettorale sia di importanza
cruciale per la sinistra e di come non ci si potrà rallegrare per
l'alto tasso di astensione previsto né tanto meno per l'avanzata
delle forze anti-europeiste. Raramente mi è capitato di essere più
in sintonia con Negri. Non è infatti rinchiudendosi dentro vecchi
scemi nazionali ed a volte nazionalisti che si può oggettivamente
pensare di portare una sfida reale ad un capitale sempre più
globalizzato. E quelle forze anti-europeiste a cui si guarda come
interessanti soggetti con cui dialogare sono spesso composte da
elementi contigui al neofascismo che si cela dietro vecchissime
coltri quali la non appartenenza agli schieramenti, la lotta contro i
privilegi di casta acquisiti, innegabilmente acquisiti, dai partiti.
Forse un modo per cominciare, o continuare, a ragionare di crisi e di
sinistra è proprio ripartire da quest'ultimo verbo: acquisire. La
cosiddetta casta, infatti, non ha guadagnato, non ha neppure
conquistato dei diritti o dei privilegi. Li ha acquisiti.
L'acquisizione è una forma di redistribuzione del potere
autoreferenziale. Una forma di redistribuzione del potere da cui
discende la modalità sociale di gestione/accaparramento della
ricchezza. Per utilizzare un vecchio adagio caro a Said la modernità
sancita dalla Rivoluzione francese ha fatto sì che la ricchezza un
tempo legata al diritto di nascita divenisse essa stessa base
fondante del potere oramai slegato dal sangue. L'acquisizione delle
risorse era un diritto legato al sangue tipico delle
società pre-moderne. È stata la rivoluzione francese ad invertire ,
ad effettuare una vera e propria rivoluzione copernicana, legando il
potere al denaro e non viceversa. Il borghese diveniva potente perché
ricco. Quello che, mi pare, stia accadendo oggi è una nuova
inversione del paradigma; la scossa della rivoluzione giacobina ha
permesso una mobilità sociale relativamente breve che è stata poi
reiterata più in forme mitologiche che nella realtà delle dinamiche
sociali. Da Marx a Bourdieu molti sono stati i pensatori che hanno
sottolineato una tendenza del capitalismo, di quello nazionale prima
e di quello globale poi, a sfuggire alla mitologia borghese della
mobilità delle classi per ricreare un sistema di ceti.
Questa
tendenza è divenuta più forte in quei paesi che hanno legato le
fortune del proprio sistema economico ad un alto intervento dello
Stato come in Italia. Questo intervento infatti se da un lato ha
temperato alcune delle storture più inaccettabili del liberismo ha
anche assegnato un enorme potere di gestione delle ricchezze, e
quindi del potere, ad un gruppo di burocrati che si sono
cristallizzati in una sorta di Secondo Stato, se mi si passa la
similitudine con il ruolo giocato dal clero nella Francia del XVIII
secolo. Vi sono stati degli aggiustamenti e degli scossoni anche
forti a questo stato di cose. Scossoni sia chiaro quasi tutti interni
alla classe/ceto borghese ultimo dei quali, per quanto riguarda
l'Europa occidentale, è stato il movimento del '68. Per la prima
volta sul finire del decennio '60 del '900 il meccanismo di
reclutamento delle élite tornava ad essere basato sul capitale sociale e non più sulla meritocrazia che aveva contraddistogli anni dell'immediato dopo guerra. La recente
apertura degli studi universitari alla maggioranza dei giovani
appariva per ciò che realmente era: il reclutamento di tecnici
specializzati che sarebbero stati, al massimo, addetti al controllo
della produzione ed al superamento del fordismo. Contro questa
tendenza si sono scagliati i giovani studenti affiancati per un poco
dalla rabbia operaia composta soprattutto da ragazzi meridionali
deportati al Nord. Che i primi siano riusciti a soppiantare la
vecchia élite mentre gli altri abbiano patito una cogente e storica
sconfitta è un dato, ad oggi, difficilmente contestabile. È stata
la generazione contestataria e comunque borghese, uscita dalle aule dei principale atenei del paese, a
divenire ceto/burocratico che ha materialmente gestito il tramonto
del fordismo in economia e la creazione di un sofisticato meccanismo
di acquisizione delle risorse pubbliche avviando al contempo i
processi di privatizzazione della macchina pubblica con un repentino
spostamento non solo di denaro e potere ma anche con una
ridefinizione profonda del ruolo della burocrazia e, soprattutto,
della politica. Il motivo che sottende questo processo di
privatizzazione spiega, ovviamente solo in parte, la natura di questa
crisi che è tutta congiunturale e rimane interna al capitalismo.
Questo
processo politico a cui abbiamo accennato brevemente è stato
accompagnato da una potente campagna culturale che dura da almeno 30
anni rispetto alle meraviglie del libero mercato e dalla necessità
assoluta delle privatizzazioni di ogni asset pubblico. Per dirla in
termini marxiani, però, questi sono aspetti sovrastrutturali che
indicano la direzione in cui guardare se si vogliono comprendere i
meccanismi interni dello sviluppo delle forze produttive. Senza
andare a rispolverare la caduta tendenziale del saggio di profitto,
che pure spiega ancora alcuni aspetti centrali di questo momento
storico quali il proliferare di nuovi conflitti a sfondo
imperialista, uno degli elementi centrali per comprendere forse un
poco meglio questa fase è il concetto di accumulazione originaria.
Secondo Marx attraverso l'esercizio del potere politico fu possibile
creare le precondizioni necessarie alla nascita del capitalismo come
sistema economico e sociale. La trasformazione delle terre comuni in
private nell'Inghilterra del XVII secolo ebbe come ricaduta immediata
la nascita di un nuovo proletariato, contadini poveri che dovettero
mettersi sul mercato come mera forza lavoro una volta privati
dell'accesso di sussistenza alle terre comuni, e di un mercato.
Quegli stessi contadini che prima potevano ricavare dalle terre
comuni alcuni beni di consumo erano, poi, obbligati a comperarli.
Secondo Marx questo fu una specie di primo calcio, l'avvio del motore
del capitalismo. In quanto tale avrebbe dovuto essere un evento unico
e sostanzialmente irripetibile. Come ci insegna Balibar però il
capitalismo non è la sola forma di produzione delle merci che esiste
ma è solo quella egemone. Contemporaneamente ad esso sopravvivono o
si sviluppano forme altre che a volte poco hanno a che fare con il
capitalismo in strictu sensu; parimenti nelle sacche create dalle
contraddizioni sociali del capitalismo stesso nascono forme di
produzione di beni e servizi, come le cooperative, non pienamente
capitaliste. In questo caso, senza entrare nel progressivo
deperimento del capitale politico e sociale che un tempo era
rappresentato dalle cooperative, è interessante soffermarci sul vero
core della questione: la privatizzazione di ciò che era, o ancora
rimane, patrimonio pubblico. LA privatizzazione, ad esempio, di un
ospedale invera in un solo colpo la teoria di Marx sull'accumulazione
originaria. Di colpo infatti privatizzando un edificio e tutte le
macchine che si trovano al suo interno si procede ad una spoliazione
di un mezzo di produzione e si creano una massa di nuovi proletari
che dovranno vendere la propria forza lavoro al nuovo padrone. Il
processo poi di creazione di un mercato è poi immediata in quanto
tutti i cittadini che avevano maturato un pezzo di salario accessorio
in forma di welfare stare diverranno di colpo clienti.
La
crisi, credo, si possa leggere in questi termini. O almeno anche in
questi termini. E se questi sono i termini il mio problema continua a
non essere Tsipras o le istituzioni europee ma come, anche dentro ed
introno quelle istituzioni siamo in grado di far rinascere il
conflitto. Non tanto e non solo perché credo sia una parte
ineludibile della politica ma anche solo come difesa democratica
datosi che i fautori della fine della storia e della lotta di classe
il conflitto lo operano ogni giorno...contro di noi...