lunedì 5 dicembre 2016

Sorrido a denti stretti.



Il referendum assurdo proposto dal governo Renzi ha perso. Un terzo della Costituzione nata dalla Resistenza antifascista non verrà cambiata. Il giovane si è dimesso pochi minuti fa con un discorso surreale in cui si è preso la responsabilità della sconfitta. Lui, eroe greco dei nostri giorni, fiero spartano sulla breccia Scultoreo Leonida che muore per tutti; non c’è nulla di più populista del pavoneggiarsi di un leader (o presunto tale) che offre il petto vigoroso alle lance. Nulla di più distante dall’idea di partecipazione democratica di quell’improprio utilizzo di una retorica stucchevole di una morte (politica) romantica e solitaria, nulla di più fastidioso di quell’assenza assordante del noi. Non hai perso te, ha perso, soprattutto, un partito. Mai citato il Partito di cui è segretario, nemmeno una volta. La chiave della sua sconfitta e, prima ancora, della sua inadeguatezza sta tutta lì. Mi direte ma la destra il mito dell’uomo forte ce l’ha da sempre; appunto la destra. Renzi in teoria è stato un leader della (moderata, moderatissima) sinistra italiana. Una sinistra storica, forte, radicata ed a volte radicale (secoli fa) che sapeva capire le necessità primarie di un popolo e renderle legge attraverso percorsi partecipativi lunghi, difficili ma collettivi. Ecco, anche simbolicamente, il discorso di commiato (speriamo perenne) di quest’omuncolo dalla vita politica italiana ha voluto, ancora una volta, ancora di più, inquinare, insozzare, violentare le radici del pensiero politico della sinistra: esiste il noi! Poi può piacere o meno ma la sinistra nasce dall’idea di eguaglianza e dentro quell’idea lo spazio per l’io viene ridimensionato. (Angolo Nerd): il benessere dei molti conta di più di quello dei pochi diceva Spock. Ecco se non vi va bene non è un problema ma siete di destra. Basta saperlo. Però almeno a sinistra alcune cose le devi sapere; sapere che cos’è il movimento operaio, che cos’è un padrone, come funziona il mercato capitalista; cose così, insomma. Soprattutto se nella vita vuoi fare politica. Ora leggo reazioni a caldo di poveri democratici che speravano nel sì e che ora preconizzano, la morte della democrazia, la vittoria del M5S (che io reputo una sciagura atroce, sia chiaro), dittatori latino americani, espatri con le valigie di cartone…ecco, calma. Forse potrebbe anche esserci una terribile involuzione a destra i segni ci sono tutti; ma prima di morire ai piedi dell’altare vogliamo almeno chiederci il perché? A questo referendum hanno votato milioni di persone, sono tutti pericolosi fascisti con i denti affilati? Stesso ragionamento si potrebbe fare per la Brexit, per Trump ma rimaniamo a noi. Ma porca miseria 20 di Silvio non ci hanno insegnato nulla? Maree di lavoratori e disoccupati votavano e votano a destra. Perché? Cosa caspita siamo stati in grado di offrire a sinistra? Il Jobs act? E vi lamentante? Per capirci se avesse vinto il Sì l’Italia sarebbe di colpo divenuta la patria dell’eguaglianza e della partecipazione? Ma davvero? È tutta anti-politica. Quando perdiamo noi è sempre colpa dell’anti-politica. Ma vi sfiora l’idea che, invece, questo voto tenga al suo interno anche un grande desiderio di politica? Che forse una parte di chi ha votato No avrebbe una gran voglia di partecipare ma non sa dove farlo? Ora non dico che bisogna per forza promettere il socialismo ma nemmeno dire a milioni di persone: mi dispiace lavorerai col voucher e morirai di fame! Dobbiamo fare qualcosa di difficilissimo, dobbiamo scardinare l’IO dell’omuncolo e costruire NOI, dobbiamo rispolverare antiche pratiche per scoprire che, forse, non sono così inutili. Lo scrivevo qualche sera fa, il M5S che io reputo un male assoluto, avrebbe vinto le elezioni ugualmente, finiamola di pensare che così non sarebbe stato. Avrebbe vinto perché dice cose terribili ma anche perché noi non siamo capaci di controbattere nulla che non sia la deprimente viltà del capitalismo. Avrebbe vinto col suo nazionalismo assassino perché le leggi contro gli immigrati le hanno scritte Napolitano e la Turco. Avrebbe vinto col suo antieuropeismo di bassa lega perché nessuno dei leader della sinistra italiana è stato capace di mettere in campo un ragionamento transnazionale che andasse in direzione opposta a quella dell’austerity. Non avete perso un referendum avete perso una classe negandone l’esistenza in un delirio post-turbo.minchia e poi un paese che non avendo speranze preferisce votarvi contro anche rischiando un incubo. Se a questo non saremo in grado di opporre una costruzione collettiva, periremo uno alla volta, come individui, soli.

lunedì 28 novembre 2016

Que viva el CNEL!

IO giuro che non volevo; ho seguito questo psicodramma referendario con scarsa attenzione, del resto di più non meritava, e con un poco di sarcasmo. Vista dall’estero (dove risiedo più o meno saltuariamente) questa campagna elettorale pare piuttosto ridicola. Anche ad osservatori poco attenti. Insomma il globo pare attraversato da questioni ben più serie di questa perché troppe persone spendano tempo ed energie per affrontare una confusa (e confusionaria) riforma costituzionale. Nelle ultime ore, però, mi sono convinto che una cosuccia la dovevo scrivere, anche solo per i posteri, anche solo per poter dire a chi verrà dopo di me: lo vedi? Mentre il pianeta scivolava nel delirio neo-nazionalista ed i miei compatrioti erano intenti a discutere cose con poco senso; io lo dicevo. Ecco diciamo che i toni millenaristi della campagna elettorale mi hanno veramente stancato. Lo dico per dovere di cronaca, raramente mi sono trovato d’accordo con Bifo ma c’è un post sul blog del suo movimento che mi è parso corretto. Il succo è: l’Europa non esce dalla crisi, i popoli guardano a destra e voi pensate a queste cagate? Per carità è una banalizzazione ma di fatto questo è. Ecco mi trova abbastanza d’accordo. Non credo che se dovesse vincere il Sì si ribalteranno chissà quali equilibri istituzionali; è un pasticcio è una riforma scritta malissimo e pensata per snellire, velocizzare e, forse, banalizzare, cose che, a mio parere, avrebbero invece bisogno di essere ponderate, lente ed a volte persino macchinose. Provo a spiegarmi. La legge è sempre espressione di una classe dirigente. Le norme giuridiche rispondono a complessi equilibri sociali che dovrebbero evitare la guerra civile permanente ma non lo scontro. La democrazia è questa. Si tratta di un’infinita e lunga rottura di palle. Per questo questa riforma è sbagliata. Non si tratta solo del fatto che è scritta da dei cani che farebbero meglio a fare causa alle proprie scuole medie; è sbagliata perché strizza tremendamente l’occhio ad una deriva populista. Velocità e dinamismo. Poi, ripeto, è scritta talmente male che non succederà nulla ma il cuore, il pensiero profondo è la ricerca affannosa di una scorciatoia verso lidi di sfolgoranti ascese elettorali, attenzione, ma che poco hanno a che fare con il politico. Non è una riforma è una scorciatoia un po’ furbetta che dice all’elettore medio: hai visto ho tagliato i costi della politica. Ecco, io sarei per alzarli, invece. La politica è una cosa seria, le democrazie devono comporre interessi contrastanti ed a volte è difficile. La politica deve trovare soluzioni complesse a problemi che la maggioranza di noi ancora non vede. La politica è difficile e la democrazia prevede tempi lunghi e persone preparate. Non serve fare più leggi se sono stupide. Le leggi dell’Imperatore Giustianiano sono vecchiotte ma sono state alla base del pensiero giuridico occidentale per qualche secolo: per dire se una cosa la fai bene, magari ci metti tempo ma poi funziona a lungo. L’Europa sta sprofondando in un incubo di stagflazione non solo economica ma morale ed intellettuale; dipingiamo dei poveri disgraziati in fuga da guerre e miseria causate anche da noi, come un’orda di Visigoti, distruggiamo il futuro del continente sull’altare dell’accumulazione del capitale ed il problema è il referendum? Un po’ sì. Solo un po’ sia chiaro. È un problema il pensiero che ci sta sotto, è poco strategico anzi non lo è per nulla. Aldo Moro diceva che i politici pensano alle prossime elezioni mentre gli statisti alle prossime generazioni. Ecco dovremmo, forse, insegnare alle prossime generazioni, e ricordacelo anche noi, che la democrazia è lenta e complicata che si tratta di pazienza e di visione del futuro. Forse, però, visto che il futuro lo abbiamo dato per spacciato ci accontentiamo della velocità anche nelle sciocchezze. Avremmo, credo, bisogno di un pensiero strategico, che francamente manca, che pensi a modelli di società. Dire vota Sì altrimenti faremo le leggi più lentamente non è sufficiente; anzi. Io vorrei le faceste con calma perché sono importanti e regolano la vita della comunità, gli impediscono di crollare in quella guerra civile che tanti leader europei  di destra sembrano quasi auspicare. Dire pagheremo meno i politici mi spaventa perché mi viene in mente che Trump ha deciso di non essere pagato affatto. Vorrei pagarli molto i nostri politici in Europa, vorrei che prendessero decisioni sagge e che queste decisioni nascessero da un confronto anche aspro perché quello è il cuore della vita democratica. Non una maggioranza schiacciante che simula un unanimismo sterile e vuoto. Lo scontro (non la guerra civile sia chiaro) è fondamentale ed è lo sforzo della ricomposizione a fare la politica; per questo c’è bisogno di tempo e c’è bisogno che le persone che dedicano questo tempo, il loro tempo e la loro vita a un benessere collettivo, vengano pagate perché sia garantito anche a chi non ha di fare la sua parte dentro il dibattito collettivo. Ma ci stanchiamo, preferiamo un like, un post, un twitter; amiamo velocità fagocitanti e comunicazioni inutili. La democrazia vuole tempi lunghi, lavori faticosi e noiosi. Non si può decretare la bontà di una legge in un tweet on in un anno. La sola vera cartina di tornasole da questo punto di vista è questa crociata infame contro il CNEL che avrebbe dovuto essere un’istituzione di programmazione importante ma che è rimasta lettera morta come tante altre parti della Costituzione (pur splendida) di questo pese. Il CNEL non lo vuole nessuno perché non ha funzionato, dicono. Non ha funzionato perché vi avrebbe riportato ad un pensiero strategico, di programmazione, di lentezza e di saggezza. W il CNEL!

martedì 26 luglio 2016

gli atei, l'amore e la morte

Mi dispiace ma non so descrivere la morte; nemmeno una morte annunciata e che si attende come un taxi nell’androne di un palazzo mentre fuori piove. Vorrei essere capace, vorrei che tutti gli inutili libri che ho letto mi venissero in aiuto; ma loro no, se ne stanno bastardi e silenziosi a guardarmi dagli scaffali. Io purtroppo non ho doni da mettere nelle bare, non ho consolazioni da aggiungere ai fiori, non ho parole per descrivere ciò che non so e che non riesco nemmeno a percepire. Cosa vuol dire attendere un non meglio specificato nulla? Che significato ha il dolore fine a se stesso? Forse nessuno. Forse non c’è spiegazione; forse la fine è solo intimamente se stessa. Ed allora ha più senso pensare alla trippa ed ai mille involucri di plastica che avvolgevi attorno ad ogni cosa che mi davi; forse ha senso solo rimanere un secondo di più a stringerti la mano scarna fintanto sia possibile; non lo so ma altro non so fare. Vorrei dirti che ho imparato a chiamare la natura per nome perché l’ho visto fare a te; a te che non mi hai mai insegnato nulla ma mi hai semplicemente mostrato il tuo modo di avvicinarti alle cose. Con grazia, sì in qualche modo con una grazia semplice, con quella conoscenza che deriva dal saper dare ad ogni cosa un valore, persino un’etica. Mi piacerebbe rendere il tuo andare più lieve dicendoti che non sbaglierò e che mi prenderò cura di coloro che hai amato come avresti fatto tu; ma ti direi una bugia. Non c’è modo di rendere giustizia al tuo sorriso mentre guardi tua figlia provarsi un abito nuovo o tuo nipote pronunciare i primi vagiti; e mentre lui sborbotta suoni senza ancora alcun senso tu già senti che la fine sta giungendo. A volte più rapida in una fitta di dolore, a volte lentamente in quella consunzione lenta ma inesorabile che accompagna la malattia. Non mi è nuova la lunga liturgia di esami e trattamenti tremendi che hanno sfiancato il tuo corpo e le nostre anime ma, come sempre, mi ha dilaniato; ho tentato, ti giuro, di essere forte e di supportare la dolce giovane donna che tanto amo e che mi onora della sua presenza ogni giorno; non so se ci sono riuscito. Del resto per quanto mi sforzi non riuscirò mai a non farle sentire la tua mancanza. Ma è giusto così.

Ecco io non sono un credente; ho rispetto per chi crede; certo li guardo un po’ come i fratelli scemi che ancora si gettano anima e corpo nelle favole ma un po’ li invidio. E chissà, forse, il mio rispetto deriva proprio da quella invidia che sento; invidio il vostro senso di sicurezza mentre io non riesco ad averne. Invidio la vostra stentorea verità mentre io annego nei dubbi; invidio la vostra solida (chissà forse stolida) credenza in un altro mondo fatto di pace e giustizia e lontano dalle brutture di questo mentre stringo la mano della donna che amo e non so come consolarla; non so aiutarla, non so spazzare via paure e dolore come se fossero cenere su di un tavolo; mentre lei guarda sua madre morire, io vi invidio. Poi, però, penso che starò al suo fianco e che non le mentirò e che sarò semplicemente quello che sono senza cercare di sconfiggere un dolore immenso col quale conviverà per il resto della vita; e che la sola cosa che potrò fare sarà portare quel bagaglio di dolore con lei; non avrò risposte e forse per questo cercherò di essere migliore, per rispettare una promessa non fatta ma alla quale sono legato. Mi prenderò cura di lei ogni giorno e non avrò bisogno di altro. Gli atei soffrono di più ricordatevelo! Gli atei cercano di essere giusti per onorare la memoria dei loro cari che non ci sono più non perché credono in qualche ricompensa. Non credo in nessun dio e se ci fosse lo sfiderei dal profondo delle mie viscere e rinascerei da qualsiasi inferno per raderlo al suolo con la forza di un odio immenso e titanico. Sono ateo e amo quello che ho come voi non capireste mai; sono ateo e la forza che discende da questa consapevolezza voi non la sentirete mai. Noi, rispettiamo le promesse, anche quelle non fatte. Non abbiamo speranze per questo amiamo disperatamente. Non abbiamo fede per questo ci affidiamo senza riserve alla vita; e quando questa scivola tra le dita non abbiamo risposte ma solo domande; non abbiamo salmi da innalzare ad un cielo vuoto ma solo un canto che celebra, ancora ed ancora, la vita. Quella unica ed irripetibile che voi non assaporerete mai; quell’esperienza unica che non ha senso e per questo è così immensamente piena. Noi non sappiamo, preferiamo vagare in un buio reale tenendoci stretti per non avere paura anziché inventarci invisibili e muti dei che ci lasciano soli. Ed è per questo non volersi abbandonare alla solitudine che rimaniamo lì; resistiamo in piedi anche quando avremmo voglia di cadere. Perché sappiamo che aggiungere solitudine a disperazione non porta a nulla. Starò qui finché sarà possibile. Starò qui a cucinarti una volta di più, a stringerti mentre svanisci nel mio abbraccio a restituirti quel poco che ho, quella speranza che parla al presente e che si proietta in un futuro che non vedrai ma che ti appartiene perché noi non crediamo in nulla se non nella vita. E celebriamo quella anche mentre ti salutiamo un giorno dopo l’altro senza dirti che manterremo promesse che non abbiamo fatto.

sabato 23 luglio 2016

come in un videogame

Cos’hanno in comune gli uomini e le donne che hanno preparato e messo in atto gli attentati che negli ultimi 18 mesi hanno sconvolto L’Europa occidentale[1]? Molti, la grande maggioranza, erano di fede islamica. Non tutti erano musulmani modello, anzi. L’ultimo addirittura era un ragazzo giovanissimo che in preda ad un delirio di tipo nazionalista, oltre che ad evidenti turbe della personalità, odiava i turchi e gli immigrati essendo lui stesso di origini iraniane. Come possiamo tracciare una linea, per quanto tortuosa, che unisca l’attentatore di Monaco con quello di Nizza e quelli del Bataclan? Come possiamo pensare che un gesto isolato (almeno a 24 ore dall’attentato sembra esserlo stato) con un piano complesso che fa capo ad un’organizzazione transnazionale che si auto proclama Califfato? Forse, il cuore di questo tentativo è ancorato a quello di egemonia in Gramsci. L’egemonia, ossia le forme di domino culturale che danno forma alle società, non sono neutrali ma, in qualche modo, espressione della classe dominante. Allo stesso modo si sviluppano lungo assi che travalicano la cultura ufficiale ma che dipartono, a raggiera, abbracciando ogni modello espressivo dalla letteratura alla musica ed all’arte fino al divertimento. Per questa ragione le forme del dominio culturale sono così strettamente legate allo specifico nazionale perché i loro codici sono connaturati ad una specifica cultura nazionale; o quanto meno, e questo è cruciale, di un gruppo. L’appartenenza è un dato culturale; anzi è il dato culturale per eccellenza. Fare parte di un gruppo, una nazione, una tifoseria, una generazione, una fede, spiega al singolo essere umano chi è, qual è il suo scopo oltre se stesso. In una parola da senso non solo alla sua vita ma alla sua morte. Ora da circa quarant’anni il modello culturale dominante delle società occidentali si è basato su di un’idea portante estremamente forte e fortemente propagandata: l’individuo. Null’altro vale se non l’individuo. Non mi metterò qui a fare una critica del neoliberismo, non serve, sta fallendo da solo. Mi sta, invece, più a cuore pensare alla diffusione massiccia di un modello culturale individuale e superomistico allo stesso tempo. Sì perché se l’unica dimensione che conta è quella individuale questo stramaledetto individuo che sono dovrà essere, per forza, speciale, unico ed irripetibile. L’eroe di un videogame, di un film d’azione, di una canzone. Chi in tutta coscienza vorrebbe essere comprimario o ancora peggio semplice comparsa? Chi non aspira a dare alla propria esistenza un significato che travalichi la sua morte? Lo Stato è in crisi, le società, la famiglia, ogni tipo di istituzione sta vivendo un momento di stravolgimento. Veniamo invitati a vivere vite straordinarie e solitarie; persino le pubblicità dei deodoranti ci spingono verso titaniche traversate dei deserti in cerca del senso ultimo dell’esistenza. Laddove questo senso ultimo rimane sempre lo stesso: tu e soltanto tu importi. Non c’è nazione, progetto, politica, non c’è futuro. Veniamo spinti a forza in un presente senza fine. A quel punto la fine è il solo momento che appare degno di considerazione. Un uomo di successo se ne va con stile e con il botto. Non vorrai mica morire in una periferia sfigata come quella dove sei cresciuto, vero? Il lavoro, la mancanza di lavoro, la famiglia, la società, persino la fede, son tutte cose importanti ma solo nel momento in cui sacrifichi la tua eroica vita in nome di questi feticci. Sì perché in realtà nessuno degli attentatori era un vero musulmano (cristiano od ebreo, sarebbe stato lo stesso) e della santità del Califfato gli importava, probabilmente, molto poco. Volevano distinguersi volevano vivere come un eroe almeno per una volta. Sono cresciuti con Doom (non è vero ci sono cresciuto io ma i videogame di ultima generazione non li conosco), sono invincibili e muoiono solo perché lo scelgono. Sono solo morti eroiche. Non si disfano di lavoro per crepare di malattie prese sul lavoro mentre ancora pagano il mutuo. L’egemonia culturale, dunque, ha funzionato. Anche troppo bene. Non credo sia un caso se la stragrande maggioranza degli attentatori fossero nati e cresciuti qui in Europa. Siamo stati noi a dirgli di pensare solo a sé stessi e che il futuro non esiste. Di che vi lamentate? Dei morti? Ma se son solo pupazzi? Loro sì che sono inutili, loro sì sono solo personaggi del videogame: gli sparo ma non lo faccio perché ce l’ho con loro. Anzi lo faccio per me, solo per me; in fondo chi è più importante di me e del modo in cui vivo la mia unica avventura? Perché quella conterà alla fine. Non se ero anche un po’ omosessuale ed omofobo, non se mi facevo le canne e bevevo, non se contravvenivo a qualsiasi precetto della fede che dico di professare. Perché la sola fede che sto professando è la mia fede. Poi, chiaramente, questa fede mi aiuta a sentirmi parte di qualcosa di più grande, mi fornisce l’infrastruttura necessaria alle mie gesta. L’idea che il mio gruppo mi ricorderà come un martire è centrale in tutta questa liturgia; ma ancora il gruppo è il depositario delle mie gesta; vero che senza gruppo non ci sarebbe memoria ma senza le gesta forse non ci sarebbe gruppo. Un cane che si morde la coda, insomma. Un corto circuito di culture della morte: una che ti dice che sei la cosa più importante e l’altra che ti suggerisce che sei talmente importante che la tua morte sarà un capolavoro: chi parlava di bella morte? Ah sì. Anche allora lo Stato così come lo avevano conosciuto era in crisi, anche l’economia tanto bene non andava e pure allora vi era stata un’ondata di romanticismo che faceva anelare alla morte ed alla guerra come momento salvifico. Sopra queste culture, individualismo e superomismo, ci possiamo costruire molti miti: la nazione, il califfato, la fede, l’antimodernismo. Al fondo rimane la vittoria dell’individualismo su una dottrina che parlava di giustizia e di libertà come percorso collettivo: non per scelta ma come unica via. Parlava di socialismo. Ma ci avete detto che eravamo vecchi ed inutili. Adesso tenetevi la gioventù che avete allevato, sono soli, feroci e senza pietà. Proprio come li volevate. Gli avete insegnato che si deve vincere, sempre e che se non si vince si forza il risultato. Gli avete detto che perdere fa schifo e che il vincitore è uno solo e prende tutto. Vi stanno prendendo tutto… pezzo dopo pezzo, cadavere dopo cadavere. Ah e se ve lo steste chiedendo: hanno appena cominciato e voi non avete nulla da opporgli.



[1] Si parla di Europa Occidentale perché prendere in considerazione il globo terracqueo sarebbe fin troppo complesso; è bene, però, ricordare che i più sanguinosi attentati degli ultimi anni hanno visto come teatro città del Medio ed estremo Oriente.