lunedì 16 novembre 2015

Paris 13-11

L’unica difesa che abbiamo è restare noi stessi. Così dice Alain Touraine. Non ci difenderemo dal terrore diventando altro da noi, lasciando che la paura ci domini. Giusto da dire; molto difficile farlo. Io mi occupo di violenza e terrorismo da anni, ho intervistato terroristi di ogni colore politico, ho visitato luoghi e stati mentali di disperazione e solitudine assolute cercando di comprendere le motivazioni ultime che spingono un essere umano a pianificare e mettere in atto attentati costati la vita a centinaia di persone; eppure l’altra sera sono rimasto attonito e per molte ore non ho fatto altro se non inveire contro telefoni che non squillavano. Ripetevo ossessivamente lo stesso gesto pur sapendo che non c’era alcuna possibilità che le linee telefoniche mi restituissero altro che un tragico silenzio. Ho sbraitato contro ogni possibile dio e contro gli uomini con lo stomaco attorcigliato mentre tentavo invano di avere notizie dai molti amici che vivono a Parigi. Ed è differente; quando una cosa del genere capita così vicino, a persone a cui vuoi bene lungo strade che hai camminato e posti che conosci e che ami. I morti, per carità, hanno tutti la stessa dignità, Parigi Beirut, i passeggeri dell’aereo russo e tutti gli altri, ed il giudizio politico è lo stesso ma emotivamente è dannatamente diverso. Poi sono passate le ore e lentamente ho ricominciato a pensare; è passato il momento della paura irrazionale ed ho ricominciato a fare la sola cosa che mi riesce: pensare ed a volte scrivere. Questo è stato possibile solo perché nessuno delle persone che amo è rimasto ucciso o ferito. Una cara amica era al Bataclan giovedì sera, un altro ci abita di fronte ed ha dovuto passare la notte fuori casa; un’altra cara amica era a Beirut e cercava di tornare a casa sua a Parigi (lei vince una specie di premio…).
Come spesso mi capita quando non capisco bene le cose, leggo. Leggo spesso. Ieri notte rileggevo alcuni passaggi di Gramsci sulla rivoluzione passiva ed il fascismo. La cultura popolare sulla quale si poggia qualsiasi regime. Non costruisci un regime senza essere profondamente radicato nella cultura del popolo. L’ISIS è un gruppo islamico. Sì, più o meno. Ci sono un miliardo e mezzo di persone di religione islamica nel mondo. Fortunatamente quasi nessuno di loro condivide l’avventura politica della creazione di un nuovo stato che unifichi i vecchi territori del califfato per poi lanciare la guerra santa contro il resto del mondo. Coloro i quali condividono questa visione sono molto pochi ma molto agguerriti. Hanno una visione e la perseguono con tenacia e con ferocia. Siamo passati anche noi attraverso decenni di guerre a sfondo religioso. Poi in realtà non c’era la sola religione bensì complessi equilibri di potere e rapporti di forza. Pur di porre un limite alle mire espansioniste di questa o quella casata ci siamo inventati la territorialità della fede: vivi in un paese il cui principe è protestante? Bene sei protestante pure te. Non ti va bene? Te ne vai. Cattolico il re? Cattolico pure tu. È una semplificazione ma più o meno è andata così; a parte un gruppo di puritani talmente bigotti che gli inglesi li cacciarono a fondare i futuri Stati Uniti (fosse affondata la Mayflower….). Dicevamo, quindi, la religione diventa un fattore che aiuta i futuri stati a darsi un’identità omogenea, a costruire basi anche giuridiche di convivenza. La guerra diviene un affare di Stato e tra Stati. Lo spettro della guerra civile viene allontanato almeno fino alla Rivoluzione francese. Li si trattava di cacciare un Re ed istituire un governo basato su diritti di proprietà invece che di nascita. È la modernità; non è che ti opponi alla modernità e se lo fai sei destinato a perdere. Fosse così facile dovremmo solo aspettare che il fondamentalismo religioso perisse da solo sotto le progressive sorti della storia. Ecco non va per niente in questo modo. Non c’è nessun verso, la storia non ha fini non mira a nulla. Bisogna scegliere. Non c’è causalità ineccepibile nelle vicende umane. Bisogna scegliere. L’ISIS ha caratteristiche profondamente anti moderne ma risponde in maniera contemporanea a sfide presenti e lo fa con mezzi assolutamente efficaci. Migliaia di giovani e giovanissimi che si uniscono alle sue file ogni mese dovrebbero averci fatto aprire gli occhi. L’altra notte hanno vinto. Una battaglia, certo non la guerra ma hanno vinto. Se una ventina di giovani militarmente poco addestrati ma con una ferrea volontà di morte sono in grado di paralizzarci a questo punto: hanno segnato un bel punto. Mentre perdono terreno in Medio Oriente rilanciano; quello che mi spaventa e non sapere quanti giovani partiranno domattina per la Turchia col solo scopo di attraversare una frontiera ed unirsi a loro. Possiamo batterli militarmente ma se non capiamo la cultura che li ha portati fin qui non vinceremo mai. Sono forti? O siamo noi ad essere divenuti deboli? L’altra sera un caro amico mi diceva che vedendo i loro video sembra di guardare un video game: sono cresciuti con Doom, questo è una versione upgrade! È una provocazione sia chiaro ma che avventura stiamo offrendo? Attenzione non dico che si sconfigge l’ISIS offrendo avventure facili ma non sottovaluto la potenza evocativa di una visione; i ragazzi del ’68 sognavano il socialismo, e quelli a cui non fregava nulla della politica di andare sulla Luna! Quali grandi aspettative stiamo creando come società? Cos’abbiamo da offrire? Per cosa rischiare? Per pagare i debiti della carta di credito? Per l’assicurazione sanitaria? Cazzo è tutta la vita che sogno di ammazzarmi di fatica per arrivare, da vecchio, a pagarmi la protesi di titanio all’anca! Sia chiaro cerco di capire; tra la fine del ’44 e la primavera del 1945 furono migliaia i giovanissimi che si arruolarono volontari nelle SS e nella Wermacht. La guerra era persa ma una generazione cresciuta in un mondo socializzato ad una violenza terribile non poteva pensare di non combattere; di non far parte di un’isteria collettiva. Qui di generazioni ce ne sono almeno due che sono cresciute in Medio Oriente sotto le bombe ed in occidente, figli di seconda o terza generazione di emigrati, con lo spettro di un’esclusione sociale perenne.
Ora è chiaro che la politica non può essere solo visione ma deve riuscire a darsi delle gambe sulle quali far camminare davvero i sogni e le aspirazioni. Oggi le gambe però mi paiono essere state pezzate così irrimediabilmente che non è data più nemmeno la possibilità della visione. L’ISIS ha una visione, atroce per molti di noi ma fornisce una risposta: la fede come identità transnazionale che identifica amici e nemici dentro un piano quasi escatologico di rivoluzione globale. Non importa che sia vera fede, importa che quell’idea di fede venga riconosciuta dalle masse come qualcosa di familiare, di rassicurante, come un elemento culturale ancestrale attorno a cui radunarsi. L’ISIS per dirla con Gramsci ha occupato inizialmente le casematte di alcuni paesi incorporando due degli aspetti fondamentali per la creazione dell’egemonia culturale: scuola e religione. Le madrasse, le scuole coraniche, finanziate spesso dai sauditi, in cui le famiglie povere potevano, e possono, mandare gratuitamente i bambini sono state, a partire dagli anni ’90, la pietra angolare delle organizzazioni terroriste. Quello è stato il primo passaggio di vittoria egemonica della loro visione; il secondo è stato l’utilizzo dei nuovi media per far aderire quell’ideologia globale ad una realtà prima virtuale e poi fisica; facebook, twitter, canali tematici di indottrinamento, e dall’ideologia agli affari con gli sharia bond ed i fondi per finanziare attività lecite ed illecite in modo anonimo e puro dal punto di vista religioso. La struttura dell’estremismo è fitta e si compone di centinaia di sigle a livello planetario. Vieni a costruire un impero, immolati per qualcosa di eterno ed invincibile; potranno sconfiggerci oggi ma vinceremo domani e tu sarai un martire immortale. Eccola la promessa: l’immortalità. La stessa di ogni regime totalitario.

L’idea prima dell’individuo, il gruppo, il clan, la famiglia, il partito, la patria…si potrebbe andare avanti all’infinito. E tra i pochi eletti che saranno sempiternamente ricordati: tu! La riscoperta della specificità individuale dentro un progetto millenarista. La stessa dicotomia tra anti modernità e contemporaneità che fa vivere un’ideale globale nel precipitato novecentesco di uno Stato. La religione, da questo punto di vista, non è così centrale; diviene centrale come apparato ideologico e politico. L’ISIS lancia una sfida politica alla quale può rispondere solo la politica. Allora la frase iniziale di Touraine non basta più: non possiamo rimanere quelli che siamo, abbiamo bisogno di ripensare paradigmi di trasformazione e di puntare di nuovo alla Luna ed alle stelle. Poi tutto rimane muto tutto si fa più oscuro pensando al suono delle sirene, all’odore della cordite che rimane nell’aria per ore, al sangue che non lavi via dalla pelle, alla paura che ti fa svegliare la notte a mesi di distanza.

lunedì 13 luglio 2015

Nessuno spazio di riformismo

Da qualche anno oramai cerco di comprendere la crisi economica che attanaglia quest’angolo di universo conosciuto con i pochi strumenti che mi sono costruito in anni di peregrinazioni, militanza politica e studi. Sono marxista per formazione e, quindi, ho la tendenza a spiegare la realtà che mi sta intorno affidandomi a quelle categorie; non credo siano sempre infallibili ma non penso siano più fallaci di altre e, fino ad oggi, mi convincono più di altre. Non ho alcuna intenzione di formulare una spiegazione complessiva di questa crisi in un singolo post ma dato che ne ho scritti altri forse un giorno tenterò di raccoglierli. Prima di tutto credo che ci siano da separare alcuni piani del ragionamento che sono almeno 3: uno economico, uno politico ed uno geopolitico. Sono convinto che senza l’analisi e l’intersezione di questi 3 piani poco si capisca di ciò che sta accadendo. Una volta analizzati questi tre aspetti sarà, forse, possibile cercare di tirare delle conclusioni.
La crisi da un punto di vista puramente economico ha a che fare con 3 eventi che si sono alimentati l’un l’altro ed al quale sottende un dato ideologico molto forte. Il primo di questi livelli è legato alla caduta tendenziale del saggio di profitto. Per via dell’accelerazione tecnologica che abbiamo vissuto negli ultimi 30 anni le imprese si sono ritrovate a dover fare investimenti sempre più massicci in capitale fisso. Per intenderci innovazione sia di processo che di prodotto. Questo erode il saggio di profitto. Le risposte possibili a questo fenomeno sono solitamente almeno 3 ma cerchiamo di analizzare qual è stata la risposta europea: la compressione del monte salari. Dato che le spese per l’innovazione sono, fino ad un certo livello, ineludibili il capitale tenta di rivitalizzarsi, cioè cerca di riacquisire capacità riproduttiva, abbassando i salari. In tutta Europa, infatti, i salari sono scesi a parità di produttività su ora lavorata. Per raggiungere questo obiettivo si è smantellato il welfare, cioè salario accessorio e si sono smembrati i diritti fondamentali primo tra tutti proprio il diritto al lavoro cancellando i contratti a tempo indeterminato.
Meno welfare, che ricordiamolo per inciso è salario, nessuna garanzia contrattuale a fronte di una maggiore produttività per singola ora lavorata. Queste condizioni hanno creato una condizione classica del capitalismo ossia una sovrapproduzione. Almeno dalla prima metà degli anni ’90 del novecento si produceva troppo; in tutti i settori. Basti pensare alla sistematica distruzione di tonnellaggi importanti nell’agro alimentare dettata dalle regole europee per comprendere questo passaggio. La distruzione da solo non basta, però. C’è bisogno di incrementare i consumi. La crisi greca, per fare un esempio, nasce non tanto e non solo da un debito pubblico fuori controllo ma soprattutto da un debito privato gigantesco a fronte di una produzione azzerata. La Grecia, così come il Portogallo ed in parte la Spagna erano e sono paesi a scarsa vocazione industriale; li si è guidati in un triplo salto mortale dal settore primario al terziario avanzato chiedendogli, allo stesso tempo, di consumare di più, sempre di più. Dovevano consumare merci prodotte dai paesi ricchi, attenzione non nei paesi ricchi, anche, ma soprattutto dai paesi ricchi come la Germania. Se il cittadino medio portoghese o greco non ci riusciva gli si veniva incontro con la più antica delle invenzioni: il prestito. Il costo del denaro venne abbassato sempre di più per far sì che i cittadini dei paesi poveri potessero consumare. Questo semplicemente perché altrimenti non si scongiura il rischio della sovrapproduzione. Abbiamo quindi vissuto un decennio con tassi d’interesse molto bassi e prestiti al consumo concessi con grande facilità. A questo ha fatto da contro altare una caduta sempre più rapida sia dei tassi di occupazione che d’industrializzazione. Sempre per poter combattere la caduta del saggio di profitto il capitale è migrato verso lidi più profittevoli; est Europa, paesi asiatici dell’America del Sud e parzialmente verso l’Africa. Attenzione non sono stati soltanto i capitali maturi a optare per questa scelta, non siamo di fronte ad una migrazione che permette di sfruttare macchinari e processi vecchi in paesi vergini. Persino la Cina la cui industrializzazione di massa è decisamente più recente di quella Europea ha cominciato ad produrre in Vietnam e Cambogia onde poter sfruttare salari più bassi. Proprio al gigante asiatico ci si volgeva negli ultimi anni speranzosi che vivesse un boom tale da poter trascinare con sé l’economia mondiale; questo non sta accadendo semplicemente perché, seppur di Stato, quello cinese è un sistema capitalistico e vive le contraddizioni classiche del capitalismo. Ed a queste contraddizioni classiche reagisce in modo altrettanto classico: abbattimento del monte salariale ed imperialismo. Sul primo basti guardare i dati e gli articoli di Yang, Chen e Monarch su riviste quali la Pacific Economic review; per il secondo aspetto aprire il Sole 24 ore un giorno qualsiasi degli ultimi 5 anni e scorrere le notizie dell’espansione cinese in giro per il mondo. Non starò a scomodare Hilferding quindi basti guardare D. Harvey quando nel 2003 parlava di nuovo imperialismo per descrivere la tendenza che il capitale stava prendendo su scala globale. Ma, quindi, che diamine succede? Succede che il pianeta è limitato. Non c’è posto, spazio e risorse per tutti. Lo abbiamo sempre saputo basta entrare alla prima lezione di un qualsiasi corso di micro-economia fatto con un poco di criterio per sentirselo dire. Ora il vero punto, come sempre, sta qui: come distribuiamo la ricchezza che è, appunto, limitata? Chi ha accesso a cosa? E secondo quali regole? La Prima e soprattutto la Seconda guerra mondiale aveva non solo posto fine alle aristocrazie prima ed ai totalitarismi poi, avevano segnato la fine di un pensiero ottocentesco di matrice protestante che incentrava lo sviluppo economico sul pareggio di bilancio. Non lo faceva a seguito di grandi studi economici ma solo perché l’economia che era, a ragione, considerata una scienza sociale doveva conformarsi all’etica. E dato che l’etica del tempo poneva un’enfasi particolare sulla laboriosità ed il risparmio pensando di poter gestire una nazione come una massaia, il pareggio di bilancio era giusto ed etico. Da un punto di vista politico questo voleva dire essere magari sì repubblicani ma era quello un ideale democratico monco; era ancora legato al censo: se lavori e guadagni allora voti. Se sei un fannullone non hai diritto di scelta, oggi accade moltiplicato lo stesso fenomeno: non importa se i cittadini greci hanno votato; sono considerati antropologicamente incapaci di decidere ed è, quindi, giusto che i saggi risparmiatori decidano per loro. Il censo prova la loro inettitudine politica. Ora tra il 1914 ed il 1945 questa follia si è sgretolata sotto il peso di due conflitti mondiali; intendiamoci non sono stati i poveri a fare le guerre. Le guerre le han decise le case regnanti e qualche cancelleria di supposti Reich millenari. Ai poveri è stato chiesto di morire a milioni ed in cambio di questo gli si è concesso il voto. Non la libertà, non l’eguaglianza non uno straccio di diritto reale e materiale; no quelli se li sarebbero dovuti sudare in fabbrica e conquistare con le lotte sociali. Il suffragio universale viene però concesso. Dopo la Seconda guerra mondiale vi era poi il nemico comunista da combattere anche e soprattutto sul piano interno e specialmente in Europa. Qui da noi la retorica puritana del self made man non aveva attecchito poi tanto, i sindacati erano sopravvissuti in qualche modo ai fascismi, i partiti della sinistra prendevano carrettate di voti e soprattutto c’era il modello: il fordismo.
Te lavori 12 ore al giorno ed una parte del tuo salario invece che dartela ti viene trattenuta dallo Stato che in cambio ti offre dei servizi: scuole pubbliche, sanità e pensioni. Oddio non andò proprio così ci furono feroci battaglie ma in fondo eravamo in un momento di crescita e qualche piccola concessione si poteva anche fare: Anche perché investire e far fruttare il capitale fuori dalla sfera occidentale era, allora, molto difficile. Oggi tutto questo non è più vero. La geopolitica aiuta e viene incontro al vincitore del nostro secolo: la borghesia. Gli investimenti si spostano i mercati occidentali rallentano e quelli dei paesi in via di sviluppo non sono ancora abbastanza forti. Che accadde? Nulla stiamo cambiando il modello di produzione solo che mentre l’Europa non è competitiva da un punto di vista di saggio di profitto i paesi in via di sviluppo non sono ancora pronti al 100%. Il capitale stagna ed il saggio di profitto decresce. In Europa quindi cerco di abbattere il monte salari, di rimbalzo c’è un lieve aumento dell’occupazione a condizione ottocentesche, mentre attendo che una serie di paesi, soprattutto Africani, divengano terreno fertile per la riproduzione del capitale. Per intenderci dovete pensare al capitale come ai Panda…farlo riprodurre è un macello, è una bestia esigente: vuole manodopera qualificata e passiva, infrastrutture all’avanguardia ed economiche vuole tasse molto basse e rendite alte; incontentabile insomma.

Ora purtroppo la geopolitica non è una scienza esatta e l’economia men che meno, quindi, tutto questo ragionamento che avrebbe spinto alcuni di voi verso l’Angola in cerca di facili fortune si inceppa su di un punto, sempre quello: il pianeta ad un certo punto finisce ed in Angola a cercare fortuna ci stanno andando tutti. Questo acuisce il problema perché per sconfiggere la concorrenza dei paesi che un tempo erano colonie e che ora si affacciano al tavolo dei grandi avanzando pure pretese, il posto al Sole, mi servono altri denari. Ma ho appena detto che il mio capitale è vecchio e non si riproduce? Dove li trovo altri denari? Il saggio di profitto come l’erezione di un ottantenne cala….ah il vigore dei vent’anni…o degli anni ’20! Dunque dove trovo il viagra..pardon altri quattrini freschi per rivitalizzare il mio vecchio capitale? Facile, dai poveri! Si erano dimenticati di quella massa di disperati accatastati in un angolo in Europa ai quali avevano prestato un sacco di soldi per mantenere alti i loro livelli di consumo. Scusate ragazzi i soldi dovete ridarceli indietro. E se non li avete amen tirate la cinghia c’è la congiuntura internazionale le borse languono ed al capitale non gli tira. Vorremmo mica farci fregare da questi parvenu?  E poi scusate non siete nemmeno più operai fordisti per cui vi stiamo erogando un welfare che non state pagando. Mica possiamo fare regali! Eccola la retorica nazionalista, becera che ricorre a strumenti di terrore come il pareggio di bilancio a percentuali assassine per dirti una cosa semplice: devi soffrire per la patria che a breve ti chiamerà di nuovo a morire. Sono il nemico non un avversario ma con i nemici non si può giungere ad accordi, non ci si parla neppure col nemico. Lo si combatte fino alla fine. Siryza era ed è una forza riformista in un momento nel quale non vi sono spazi di riformismo, pensavano i compagni greci di essere di fronte ad un avversario, stolti. Siamo di fronte al nemico di classe quello di sempre. 

giovedì 11 giugno 2015

equilibri

Matteo Renzi è diventato Presidente del Consiglio dopo aver sconfitto Pier Luigi Bersani come leader del PD.
Grazie a questa manovra politica, del tutto legittima perché siamo una democrazia parlamentare e non presidenziale, oggi il giovane ex democristiano è alla guida del paese e sta realizzando un programma di riforme di grande importanza. Sono misure volte a ridurre gli spazi di critica, a criminalizzare il dissenso sociale ed a portare a termine un’idea precisa secondo la quale l’Italia può uscire dalla crisi economica comprimendo il monte salari. Va da sé che per raggiungere questo scopo si debba auspicare una dialettica capitale-lavoro pressoché inesistente o, ancora meglio, evocare lo spettro autoritario del sindacato unico. Vi è anche da dire che perseguendo quest’obiettivo si può contestualmente tagliare la spesa pubblica, per lo meno quella destinata alla formazione superiore. Sì perché una manodopera mal pagata non necessita di istruzione superiore e di conseguenza su quel capitolo di spesa possiamo permetterci di risparmiare. Il piano in sé potrebbe anche funzionare. In fondo il boom economico italiano era basato su bassi salari e tanta repressione; nulla di nuovo. Certo all’epoca era la DC a fare queste cose ed il PCI stava all’opposizione. Oggi no. E questo è, forse, il problema. Non esiste alcuna forza di opposizione al pensiero ottocentesco che in tutta Europa si è affermato. Siamo persino riusciti a riesumare un morto: il pareggio di bilancio. Se qualcuno si prendesse la briga di leggere gli strali degli americani contro Einaudi che tesaurizzò gli aiuti del piano Marshall per raggiungere il pareggio di bilancio ci renderemmo conto che abbiamo abbondantemente sforato l’assurdo. Governare processi complessi però è affare che richiede versatilità è il piano per quanto preciso necessita degli aggiustamenti. Uno di questi aggiustamenti, doloroso ma necessario, passa attraverso il consenso. Matteo Renzi il consenso, quello elettorale, non se lo era ancora pienamente guadagnato visto che il trionfo alle elezioni europee non poteva, giustamente essere sufficiente. Ma le regionali le ha vinte. I dati parlano chiaro. Potremmo stare qui ore ad analizzare i flussi di voto ma ha vinto in molte aree del paese storicamente vicine alla destra. Per farlo ha presentato l’impresentabile, si è detto. Uomini politici di lungo corso, alla faccia della rottamazione, implicati in svariate storie spesso poco chiare. Ha anche tentato di piazzare qualche LadyLike qua e là ma gli è andata male. Le elezioni regionali e nazionali si basano su compositi equilibri di potere che vanno gestiti dentro e fuori dal partito. E sono stato quegli equilibri di potere ad aver deciso le candidature. Facciamo un esempio: la classe dirigente del PD campano è coinvolta da anni in scandali che hanno a che fare con corruzione e presunti collegamenti con la criminalità organizzata. Come hanno votato i rappresentanti campani dentro il PD quando Renzi ha sfidato Bersani? Compatti con Renzi. Da quel giorno in poi nessuno ha più sentito una parola sulla “terra dei fuochi” e su nomi come Bassolino o Rosa Russo Jervolino è calato il silenzio. Oggi il ne-governatore della Campania ha detto che Saviano s’inventa la camorra per non restare disoccupato.

Lo dicono da anni, lo dissero anche della mafia che non esisteva. A Giovanni Falcone e Paolo Borsellino li chiamarono pazzi visionari. Io non so se De Luca è un camorrista o abbia mai avuto a che fare con la camorra e francamente dopo l’affermazione di oggi non m’interessa. Le organizzazioni criminali esistono ed esistono non solo come forme di potere alternativo allo Stato ma, l’ho già scritto, come simbionti dello Stao. Le due strutture al Sud non sopravvivono l’una senza l’altra ed i due progetti sono inequivocabilmente interconnessi. Chi sono i mafiosi? Davvero pensate di trovarli al bar con la coppola e la lupara? Chiaramente no. Governano i grandi processi economici del paese come insegna la questione EXPO. Hanno bisogno di giovani laureati? No hanno bisogno di 3 cose: manodopera a basso costo e desindacalizzata, amministratori locali compiacenti e possibilmente che si restauri una volta per tutte un’idea: la mafia non esiste. In fondo nemmeno Renzi esiste in quanto tale: è il risultato di accordi di potere e di classe. Non è colpa di Renzi o del PD...nemmeno loro esistono.

giovedì 19 febbraio 2015

Serie A

Partiamo da un assunto semplice: il populismo, solitamente, sfoga la propria rabbia contro i soggetti più deboli. Per molti motivi ma soprattutto perché è semplice: chi è più debole ha meno possibilità di difendersi. Mediamente il populismo si schiera con i forti e tende a dividere i deboli ed a scagliarli uno contro l'altro alimentando vere e proprie guerre tra poveri. In questo il messaggio politico di Renzi è pienamente populista.
Oggi il Presidente del consiglio si è scagliato, tra le tante cose, contro l'università. Ha detto che ci sono università di serie A e di serie B. Vi è in questo assurdo messaggio una parte di verità; del resto nessun messaggio politico può essere completamente falso; le semplificazioni e le bugie vanno sapientemente mescolate ad alcuni dati di realtà altrimenti davvero nessuno ci crederebbe.
Il sistema formativo di questo paese è stato distrutto da almeno 3 diversi fattori. Per riassumere in breve si sono drasticamente tagliati i fondi e questo taglio ha infierito su di un organismo già agonizzante. L'Italia è il paese che spende meno in educazione da molti anni; si è introdotta una falsa riforma che ha innalzato il numero dei laureati a scapito della loro formazione ed in ultimo, ed è questo un dato drammatico, si è cominciata una vera e propria guerra contro tutto ciò che è pubblico dipingendolo come una zavorra inutile, un peso, un paradiso dove sordidi figuri rubano lauti stipendi a scapito degli onesti.
Questo ha fatto sì che gli insegnanti cominciassero a venire percepiti come degli usurpatori, come degli approfittatori. Non parliamo nemmeno della figura oscura del ricercatore il quale svolge spesso un lavoro oscuro ai più. Questa battaglia ha avuto successo ed oggi gli insegnanti, i ricercatori ed in generale tutti coloro i quali lavorano per il settore pubblico sono quotidianamente additati come un problema e non come una risorsa.
Perché? Per almeno due ordini di motivi, uno tattico ed uno strategico. Quello tattico tocca il cuore del populismo. Per creare un nemico, un bersaglio facilmente riconoscibile a cui addossare le colpe della mancanza di programma politico; i gufi, gli usurpatori, quelli che sono contro il cambiamento. Categorie. Non vi è una realtà. Si crea un capro espiatorio contro cui scagliare gli strali del caso.
Vi è, però, anche un piano strategico. Il settore pubblico rimane l'ultima frontiera conquistabile da parte delle borghesie nostrane e non. Privatizzare il settore pubblico dopo che i diritti dei lavoratori privati sono stati rasi al suolo dalle nuove leggi sul lavoro.
Non sarà necessario vendere le università; non direttamente. Si smembreranno le facoltà ed i dipartimenti che hanno un valore aggiunto e si privatizzeranno quelli: eccovi le vostre università di serie A. I rami secchi non saranno tagliati, non immediatamente ma vedranno i loro fondi tendere allo zero: eccovi le vostre università di serie B.
Quest'operazione, iniziata da anni, verrà probabilmente portata a termine a breve sulla base di una grande fandonia: la meritocrazia. Le università meritevoli accederanno ai fondi, vedranno il massiccio ingresso dei privati nei consigli d'amministrazione e attireranno ottimi professori che saranno ben pagati. Splendido. Il solo problema è che questi lauti stipendi, i laboratori di ricerca, gli assegni i corsi in inglese i campus saranno pagati dalle rette. Ecco il piccolo arcano. Le rette universitarie saliranno a dismisura. Il privato vuole sedere nei consigli d'amministrazione per sfruttare gli eventuali brevetti non vuole mica investire in ricerca. I costi della serie A li pagheranno le famiglie degli studenti. In fondo quale genitore non farebbe qualche sacrificio per assicurare al pargolo un'educazione di prima scelta? Non ce la si fa? Prestito d'onore. Indebitati a vent'anni per altri venti per ripagare la retta. Due piccoli incisi: la tua famiglia non può garantire il tuo prestito? Non hai proprietà da ipotecare? Niente. Hai avuto il prestito, stai lavorando da dieci anni ed un quinto del tuo stipendio ti viene prelevato per ripagare la tua università di serie A, che succede se rimani senza lavoro. Houston abbiamo un problema.
Insomma se sei povero non lagnarti e vattene in una università di serie B. Non serve a nulla? Certo che no. Ma insomma questa smania della laurea e dell'istruzione deve un po' passarvi. In ottica di una competitività da giocarsi tutta sui bassi salari mica ci servono persone istruite. Zoticoni ignoranti che sputtanano il magro stipendio in pay TV e mignotte van benissimo.
Del resto la riforma che ha introdotto il 3 più 2 andava in quella direzione. Avevamo pochi laureati. Che si fa? Dimezziamo il peso degli esami. In qualche modo ce la faremo. Abbiamo più laureati, oggi. Meno preparati.
Ripeto quest'operazione che è di fatto una doppia azione del populismo nell'immediato e dello smantellamento dei diritti e del settore pubblico a favore dei privati la faranno passare come meritocrazia. Una delle vuote categorie tanto amate da Renzi. Il merito in università.
Per inciso io faccio il ricercatore me ne sono andato da questo paese e credo che l'università vada profondamente riformata. Il problema è che Renzi ci deve dire come. Insomma è lui che vuol fare il Presidente del consiglio. Spieghi, indichi della strade. No, nulla. Meritocrazia si limita ad urlare.
Cos'è? Come si valuta? Chi la valuta la produttività di una facoltà?
È una lunga sequela di domande difficili che chi vuole fare politica ha il dovere di farsi ed ha soprattutto l'obbligo di trovare una risposta. Se no dire meritocrazia non vuol dire nulla, anzi maschera le profonde ragioni di classe che guidano le scelte dell'attuale governo.
Facciamo un esempio: abbiamo due laboratori che si occupano di ricerca medica, uno ogni anno produce il vaccino contro l'influenza, il secondo non produce nulla, ma dico niente, per 15 anni e poi scopre la cura contro una grave malattia. Qual è il più meritocratico? Come si fa? Non è pensabile. I criteri che vorrebbero spacciare per scientifici sono quanto di più lontano ci sia dalla scienza. In realtà entrambi i laboratori hanno fatto un ottimo lavoro. Nessuno dei due è venuto meno ai principi della ricerca. In questo momento potrebbero chiudere il secondo. Se poi pensiamo a chi studia l'astrofisica, la storia o discipline che producono conoscenza non immediatamente spendibile il disastro è annunciato. Sapete che? Oggi un estremista religioso ha detto che la terra non gira intorno a se stessa. Drammaticamente alcune persone gli crederanno. Del resto nei civili US alcuni genitori rifiutano di mandare a scuola i figli perché insegnano Darwin, l'evoluzione e non il creazionismo e la bibbia.

Se non avessimo avuto la scienza, se coraggiosissimi uomini non avessero pagato con la vita l'isterismo religioso staremmo ancora a tirarci le pietre da dentro una caverna.  

mercoledì 7 gennaio 2015

ciao Charlie

Studio la violenza politica da circa dieci anni; è stato l'argomento della mia tesi di dottorato, del mio progetto di post-dottorato, di articoli e libri. Dovrei esserci abituato. Ed invece no.
Ed invece non riesco, per fortuna, ad abituarmi. Quando mi chiedono perché studio questo fenomeno di solito rispondo che lo faccio perché sento il bisogno di capire.
Questa, però, è solo una parte della verità; in realtà cerco, studiando la violenza, di esorcizzare la mia violenza, quella che, civilizzati o meno, è dentro ognuno di noi. Diciamo che confrontarmi con qualcosa di così assurdo, quasi quotidianamente, mi rammenta che così assurdo non lo è affatto.
È davvero così pazzesco quello che è accaduto a Parigi nelle ore di questa mattina? Difficile rispondere, davvero. Si può uccidere nel nome di dio? Sì, lo facciamo da secoli. Musulmani, cristiani, induisti, ebrei e persino alcuni buddisti. Niente di strano, quindi, nel pensare che un gruppo armato di natura religiosa abbia deciso di “punire” degli infedeli rei di aver diffamato il nome del loro profeta. Del resto contro quel giornale era stata lanciata una fatwa, una sentenza di morte da parte dell'islam radicale. La stessa sentenza pesa sul capo dell'autore del libro i versetti satanici e di molti altri. Tutti colpevoli di aver insultato la fede.
Ogni giorno stragi simili, ed a volte anche peggiori, vengono perpetrate in mezzo mondo ad opera di estremisti religiosi.
Vi è poi qualcosa di nuovo nel pensare che questo nemico sia stato allevato in casa? Quanti sono stati i gruppi terroristici integralmente europei nell'ultimo mezzo secolo di storia? Molti. Di estrema destra, di estrema sinistra, anarchici, nazionalisti, regionalisti e via discorrendo. Abbiamo sempre avuto bisogno di un nemico, di qualcosa di altro che definisse il noi come contrapposizione, un qualcosa di differente che stringesse i legami culturali tra chi è simile. Qualcosa di alieno che ci rendesse possibile costruire un'identità.
Cosa c'è che ci fa così paura, oggi?
Ecco la paura, è proprio la paura che dobbiamo cercare di accantonare un momento per provare a riflettere, provare, almeno tentare, di non lasciarci andare a risposte facili dettate dalla paura.
Credo, come ho già scritto, che le risposte possibili si possano sommariamente riassumere in 3 punti:

  1. i paesi arabi non hanno vissuto la rivoluzione francese.
  2. Le politiche d'inclusione europee hanno fatto fiasco
  3. la crisi economica sta radicalizzando i poveri

Non amo gli schemi, davvero non mi piacciono ma non sapevo come altro mettere in fila 3 linee di ragionamento tanto complesse senza scrivere molte pagine.
Il  processo di laicizzazione e di secolarizzazione avvenuto in Europa e che ha portato ad una separazione tra religione e stato è un percorso alieno ai paesi arabi; semplicemente la base del diritto è e rimane il Corano. Se noi dovessimo avere l'antico testamento come fonte principale del nostro ordinamento penale dovremmo lapidare le adultere.
Alcune interpretazioni del Corano fanno sì, ad esempio, che questo avvenga.
A questo si aggiunga che, anche a causa del colonialismo occidentale, quei paesi sono luoghi di emigrazione di massa. Emigrazione che ha interessato ed interessa almeno tre generazioni di persone che giungevano speranzose in Europa. Un'Europa che fino a venticinque anni fa offriva la risorsa più preziosa dopo la pace: il lavoro.
Le politiche d'inclusione sociale basate su di un welfare universalistico basato su percentuali d'occupazione altissime hanno fatto sì che molti dei migranti riuscissero, pur subendo spesso il razzismo dei cittadini europei, ad integrarsi.
Hanno pagato le tasse, costruito famiglie e, soprattutto, mandato i figli a scuola.
Nonostante questo, ed il fallimento della mixitè in Francia sta li a ricordacelo, il numero di giovani emarginati francesi è nettamente più alto tra i figli di emigrati.
E su questo scenario già non edificante è giunta e si è aggiunta la più disastrosa crisi economica degli ultimi cento anni.
Sono migliaiai i giovani che son partiti negli ultimi anni per andare a ritrovare le proprie radici culturali nei paesi da cui provenivano i loro familiari; incapaci di sentirsi parte di un progetto di società l'hanno rifiutata; contro una globalizzazione che esaspera il divario tra ricchi e poveri sono andati a cercare un fattore di coesione laddove c'era. L'islam gli ha dato questo: un'identità forte e qualcosa per cui valesse la pena vivere e morire. Le società occidentali soffrono sotto la morsa della globalizzazione che crea aspettative irraggiungibili per i più mentre l'islam è una realtà coesa che permette di sentirti parte di una comunità che pensa a te ed alla tua famiglia.
In paesi come il Pakistan o l'Iraq ridotto in macerie dalle bombe occidentali questi giovani sono stati ideologizzati ed addestrati. I terroristi che oggi hanno colpito la redazione del giornale satirico parlavano francese senza particolare accento, e la modalità e la freddezza con la quale è stato ucciso uno dei poliziotti rimanda ad un addestramento e ad una pratica consolidata.
Allah Akbar, dunque, è un urlo distintivo che riassume un'identità ed un'appartenenza.
Il terrorismo si sconfigge, dunque, risolvendo la crisi. No. E sarebbe semplicistico pensarlo soprattutto oggi che, nel caso qualcuno non se ne fosse accorto, siamo nel mezzo di uno scontro che abbiamo contribuito ad alimentare con le politiche degli ultimi quindici anni.
Servirebbero molte altre cose, cose che abbiamo paura di pronunciare: scuole, lavoro, diritti ed opportunità. Almeno qui. Almeno nei nostri paesi servirebbero, forse, queste cose per far sì che la scelta tra un'identità fanatica e religiosa ed una laica e democratica non debba nemmeno porsi. Attenzione non credo affatto, non sono ancora così ingenuo, che basterebbe. Non si può dichiarare una guerra e poi decidere che le sue modalità non ci piacciono. Dovremmo far finire la guerra, prima. E questo di per sé sarebbe rivoluzionario. Dico solo che qui nei paesi civilizzati dell'Europa, come ci piace pensarci, fare sì che morire in nome di un dio qualsiasi divenga meno attraente mi pare un obiettivo minimo.
In quei paesi, forse, ci sarebbe bisogno di rivoluzioni, vere. Non le pagliacciate finanziate dall'estero ma una presa di coscienza della masse arabe del proprio livello di impoverimento a causa delle borghesie dei loro e dei nostri paesi.
Per fare questo avremmo bisogno di sgombrare la nostra mente ed il nostro cuore dalla paura, altrimenti tanto vale dichiarare la signora Le Pen capo di stato. Lei non aspetta altro.